Un dialogo con Yafit Reuveny

Ikona Venezia - Un dialogo con Yafit Reuveny

Ikona Venezia - Soundwalk musrara by Tomer Avraha

Un dialogo con Yafit Reuveny

Per anni ho cercato di dispiegare i livelli sonori che sento in me in una composizione; il disordine e la tenerezza, le cornici sonore della mia casa natale persiana, e le distorsioni intense che ricordo e che risalgono alla mia infanzia. A volte, questi suoni mi arrivano e si traducono in un’installazione o in un paesaggio sonoro, altre volte come una colonna sonora senza film, o ancora come una semplice canzone.
Poi arriva il silenzio. Un lungo silenzio vuoto, che si riempie dei semplici suoni della vita; una madre stanca e suo figlio, i rumori della cucina e dei sogni notturni. E ho anche imparato a non avere così tanta paura del vuoto, e a ricordarmi che presto verrà colmato da qualcosa. Un qualcosa che ancora non ha un nome, ma che sicuramente inizia con un suono.


Nel 2017 hai partecipato a una residenza artistica realizzata grazie alla collaborazione tra Ikona Gallery e Musrara School of Photography. Quale significato ha avuto, per te, questo progetto a Venezia? C’è stato qualcosa in particolare che ti ha influenzato e attirato nel lavorare in questa città?

Il programma di residenza a Venezia è stata un’esperienza unica per me. Ero con mio marito e mia figlia piccola, e i temi personali legati alla famiglia hanno influenzato anche l’opera. Il mio lavoro ha voluto esplorare il personaggio di Sara Cofia Sulam – una donna ebrea, poetessa e scrittrice, che ha vissuto nel ghetto ebraico nel XVI secolo. Il viaggio che ha indagato la sua figura e la comprensione dei temi principali dell’opera sono stati per me enigmatici e hanno richiesto tempo e pazienza. La città e il suo aspetto (grembo) acquatico hanno formato un motivo sonoro centrale, che nell’opera ha rappresentato una certa qualità femminile-materna.

Nella video-presentazione sul tuo sito parli delle tue radici Persiane come un elemento significativo della tua identità e del tuo interesse nell’esplorarle più profondamente. Che significato assume questa ricerca per te? Come si riflette nella tua pratica artistica?

Inoltre, passando a parlare del tuo progetto Estare: qui sembra prendere forma concreta questa ricerca, dal momento che indaghi in esso anche le tematiche legate all’identità e alla maternità. Quando affermi di voler creare un “nuovo mito del femminile” a che cosa ti riferisci? Cosa ti ha portato a questa idea e puoi dire di aver già trovato una risposta a questa ricerca?

Fino a quando ho avuto circa vent’anni, ho sempre voluto rifuggire la mentalità e le mie origini Persiane. Non ascoltavo musica persiana né conoscevo la cultura persiana, nonostante la mia famiglia fosse nata in Iran e mia madre fosse emigrata solamente a vent’anni. La casa in cui sono cresciuta è sempre stata impostata su una mentalità molto persiana, ma non ho mai imparato la lingua per esempio.
Solamente raggiunta l’età adulta ho realizzato che essere Persiana implica un bagaglio di immagini, che anche se negate a lungo, persistono nella mia interiorità e questa appartenenza porta con sé una serie di problematiche legate alla mia identità, alla mia percezione di me stessa come donna e come artista.
Il primo strato di questa identità è legato a mia madre, alla sua lingua, alle canzoni che ricorda e alla madre che è diventata.
Accanto alla bellezza delle tradizioni, dei suoni e degli odori, sento che questa cultura porta con sé delle limitazioni, spesso legate a una visione molto tradizionale e conservativa della figura e del ruolo delle donne e delle madri. Limiti e restrizioni che ho ereditato dal lignaggio femminile della mia famiglia. Questa consapevolezza mi ha terrorizzata e suscitato in me alcune contraddizioni e opposizioni interiori. Avrei sempre voluto essere libera, forte, indipendente, e ho conosciuto una me totalmente differente.

Successivamente nella mia ricerca, nei suoi strati più profondi, ho scoperto che “essere Persiana” racchiude una mitologia e una filosofia antiche, ricche e affascinanti, dove la femminilità è rappresentata in modo molto più ampio, colorato e forte.
Questa consapevolezza mi ha riportata alla mia forza, anche se a volte è rimasta nascosta ai miei occhi e quelli degli altri.

Nell’opera Estare, per esempio, che ho creato subito dopo la nascita di mia figlia, ho dato forma a questi diversi livelli di rappresentazione del femminile. La tessitrice di tappeti di cui parla la canzone è un corrispettivo di una dea potente, la dea dell’amore e della guerra. L’opera racconta della divinità racchiusa in questa semplice donna che, barricata nel suo mondo limitato, ha comunque una moltitudine di volti, è capace di essere multidimensionale e infinita.

Un altra tua opera di cui ci piacerebbe parlare è Kitchen Work. Questo lavoro inizia con dei suoni familiari: l’acqua che scorre, qualcuno che lava i piatti, rumori sommessi, una voce in lontananza. A un certo punto, tuttavia, inizia a insinuarsi tra questi suoni una melodia monotonale, vibrante, che conduce i rumori propri di una scena conviviale e quotidiana verso una nuova dimensione. La nostra impressione è stata che queste alterazioni sonore fossero in grado di trasportarci in uno spazio onirico e distorto, contrastante con l’immagine positiva inizialmente richiamata alla memoria. Ti risuona questa lettura? Questi suoni, rumori, melodie, quali sensazioni fanno nascere nella tua intimità emotiva?

Kitchen Work è una serie di opere che ho realizzato nel corso del tempo e credo che la vostra “domanda” si riferisca a Song of Longing, una delle tracce della serie.
Quest’opera racconta di mia madre e della sua nostalgia verso l’Iran, che è sempre stata una costante in casa nostra: dal canticchiare mentre si lavano i piatti e si fanno i lavori domestici, agli odori della cucina, alla musica, ai sogni notturni.
Il brano è un insieme di registrazioni dei miei genitori, di mia sorella e del gatto che avevamo, a cui ero profondamente legata e che è morto a causa della vecchiaia.
Tutte queste voci a volte si legano in armonia, altre volte creano una dissonanza.

Un altro lavoro della serie, Ainta omri, simula una scena che si svolge in una cucina, come una colonna sonora senza film. Si possono sentire in sottofondo suoni della cucina, insieme a una famosa canzone in arabo, trasmessa da una radio, dal titolo “Ainta omri” – che significa “tu sei il mio mondo”. Nella casa ci sono una donna anziana e un uomo, divisi dal silenzio e da un abisso che si è venuto a creare tra loro. La donna canticchia una canzone d’amore in marocchino che narra di un amore deluso.
Ho creato quest’opera dopo un incontro con delle donne anziane del quartiere Musrara di Gerusalemme, la maggior parte delle quali sono immigrate dal Marocco. Queste donne si sono sposate in età molto giovane, alcune da bambine.
Un’altra opera della serie è stata accantonata ma potrei ampliarla in un’altra occasione.

Tra le altre cose, sei tra i membri fondatori della Jerusalem Sound Gallery. Ci puoi raccontare di più riguardo a questo progetto? Quali sono le ragioni che hanno fanno nascere l’idea di creare questo spazio? Quali sono le principali attività in cui siete coinvolti?

Nella serie Soundwalks, hai creato dei paesaggi sonori profondamente legati a un senso dello spazio, sia architettonico sia naturale. Questi paesaggi sonori rappresentano una modalità alternativa di indagare lo spazio, non passando attraverso le immagini come accade in fotografia o in pittura, ma con il suono. Nelle opere d’arte dove le barriere fisiche e materiali sono composte e definite da cosa si può ascoltare (inclusi i rumori che ognuno di noi provoca), che relazione si instaura per te tra i suoni e i paesaggi sonori? E tra i suoni e lo spazio in cui prendono forma? A cosa ambisci quando spingi i partecipanti di queste tracce ad “ascoltare in modo critico i suoni che sentono”?

Ho fondato la Jerusalem Sound Gallery nel 2010 insieme a Yaniv Kuris, anche lui diplomato alla Musrara School of Photography, e ad altri amici. In quel periodo, la sound art stava iniziando a ottenere una visibilità internazionale notevole e un posto riconosciuto nel mondo dell’arte, così abbiamo sentito che quello era il momento giusto per creare qualcosa di nuovo. Gerusalemme porta con sé una complessità politica e sociale, che si esprime anche nel suono, e abbiamo sentito che era il momento di raccontare la storia della città attraverso il suono, naturalmente dalla nostra esperienza personale.
Per diversi mesi abbiamo operato da un piccolo locale nel centro di Gerusalemme, e presentato installazioni, mostre e performance. Quando non abbiamo più potuto usare quel posto, abbiamo deciso che Gerusalemme stessa sarebbe stata la galleria, e siamo passati a lavori sonori site specific, dove abbiamo creato, tra le altre cose, il progetto Soundwalks.
Alcune delle cose che amo di più delle soundwalk sono la permeabilità che si crea tra i suoni esterni e quelli interni, il fatto che non sempre si conosca la fonte del suono che si sente, e infine che si sperimenta sempre un pezzo unico, composto dai rumori registrati direttamente.

Stai lavorando a qualche progetto particolare in questo periodo che vuoi condividere con noi?

In questi ultimi mesi, ho maturato il desiderio di tornare a suonare musica, soprattutto rock e folk, canzoni con la chitarra, per riprendere a incontrare direttamente il pubblico. Questo ovviamente è nato soprattutto dopo un lungo periodo in cui non mi sono quasi mai esibita viste le restrizioni legate alla pandemia, a cui si sono aggiunte la gravidanza e la nascita di mio figlio piccolo che oggi ha già due anni. Ora, finalmente, ci sono due esibizioni in programma.
Oltre a questo, una delle mie opere sonore sarà presentata alla fine di aprile in una mostra intitolata “Mishlaya”; il termine è preso in prestito dalla musica andalusa ed è utilizzato per definire un capitolo musicale che apre l’opera, la cui funzione è di dirigere gli strumenti e porre le basi (sonore) per il capitolo musicale successivo.

A dialogue with Yafit Reuveny

For years I have been trying to expose the layers of sound in me into a composition; the clutter and the tenderness, the sound frames from my persian home, and the intense distortion of my youth years. Sometimes it came to me as an installation or a soundwalk, sometimes a soundtrack with no visual, and at times just a song.
Then silence came. A long, empty silence, filled with the simple sounds of life; a tired mother and children, kitchen chores and night dreams. And I have already learned not to be so afraid of the emptiness, and to remember that it will be filled with something.
Something that may not have a name yet, but it begins with a sound.


In 2017 you have been part of an artistic residency program run by Musrara and Ikona: what meaning did the project in Venice have for you? Was there something in particular attracting you about working in this city?

The residency program in Venice was a unique experience for me. I was with my husband and little daughter, and the personal family themes accompanied the piece as well. My work explored the character of Sara Cofia Sulam – a Jewish woman who lived in the Jewish ghetto in the 16th century, poet and writer. The journey that followed her and the understanding of the main themes in the work were enigmatic for me, and required time and patience. The city and its watery (womb) aspect formed a central sonorous motif, which in the work represented a feminine-maternal quality.

In the video presentation on your website, you talk about your Persian roots as a significant element of your own identity, and your interest in exploring them deeper. What is the meaning of this research for you? How does it reflect in your artistic practice?
Moving on to your Estare project, here you have explored, among others, the themes of identity and motherhood. When you claimed to create a ‘new feminine myth’ what were you alluding to? What led you to this concept? Would you say you have already found any answer?

Until my twenties being Persian was a mentality I wanted to get away from. I did not hear Persian music or consume Persian culture, although my parents were born in Iran, and my mother immigrated in her twenties. The house where I grew up was very Persian in its mentality, but still I don’t speak the language.
It was only in my adult years that I realized that being Persian is a very significant source my space of images, even if I denied it, and it carries unresolved issues about my identity, about my perception of myself as a woman and as an artist.
The first layer of this identity connected me to my mother, to her mother tongue, to the songs she remembers, and later also to the mother become. Alongsid the beauty of folklore, sounds and smells, I felt this culture carries limitation, conservative and traditional perceptions about the role of women and mothers. limitations I inheritedout from my female lineage. an understanding that frightened me and aroused opposition in me. I wanted to be free, strong, independent, and I discovered something different in myself.
Later in my research, in the deeper stratum, I discovered that ” being Persian” preserves an ancient, rich and beautiful philosophy and mythology, where femininity takes on much broader, more colorful and powerful representations. This understanding reminded me of my power, even if at times it was hidden from my eyes and the eyes of others.
In the work Estare for example, which I created shortly after the birth of my daughter, I gave expression to these layers of female representations. The weaver of the rugs in the song is a reflacion of a powerful goddess, the goddess of love and war. The work tells of the goddess in the simple woman closed igcusn her limited world, of her multiplicity of faces, of her ability to be multi-dimensional and infinite.

We would also like to talk about Kitchen Work.
This work begins with familiar sounds: water running from the tap, perhaps someone doing the dishes, humming noises, a voice in the distance. At some point, however, a vibrant, monotonal melody comes into play and starts adding up to the other sounds: from a daily and convivial scene we step into a new dimensionality.
Our impression is that these sound alterations bring us into a distorted and oniric space, contrasting with something that might have initially recalled a more positive memory.
Would you agree with this reading? What feelings were these sounds evoking to you?

Kitchen Work is a series of works I created, I think your question refers to Song of Longing, one of the works in the series. This work is about my mother, and her longing for Iran that is everywhere in the house: the hummimg while washing the dishes and housework, the cooking smells, the music, the night dreams. The piece has recordings of my parents and my sister, and of the cat we had that I loved very much and died of old age. All of these voices sometimes connect to a harmony, sometimes into dissonance.
Another work in the series “Ainta omri”, simulates a scene from a kitchen, like a soundtrack without a movie. You can hear in the background sounds of cookin, and in the kitchen sounds like from a radio a famous song in Arabic “Ainta omri” – which means ” you are my world”. In the house are an elderly woman and a man who have silence between them, an abyss between them. The woman sings a love song in Moroccan that tells of a disappointed love. I created this work following a meeting with elderly women in the Musrara neighborhood of Jerusalem, most of whom are immigrants from Morocco. These women were married at a very young age, some as children.
Another work in the series has been shelved and I may expand on that on another occasion.

You are among the founders of the ‘Jerusalem Sound Gallery’. Could you tell us more about this project? What are the reasons that made you think about creating this space? What are the main activities you are involved in?
In the Soundwalks series, you have created soundscapes that are bound to a sense of space, both architectural and natural. These soundscapes represent an alternative way to access a place, not through images as photography or painting would, but through sounds.
In an artwork where physical boundaries are shaped and defined by what one hears (including the very sounds one is making) what relation is there for you between the sounds and soundscape? And what between the sounds and the space from which they generate?
What do you mean when you prompt participants to these pieces to ‘listen discriminatively and to make critical judgments about the sounds heard’?

I founded the Jerusalem Sound Gallery in 2010 together with Yaniv Kuris, also a graduate of Musrara, and other friends. At that time sound art received a stage and reference in the world and we felt this was the right moment to create something new . Jerusalem produces political and social complexity, which is also expressed in sound, and we felt that due to time to tell the story of Jerusalem through sound, of course from our personal experience.
For several months we operated from a small place in the center of Jerusalem, and presented installations, exhibitions and performances. After we could no longer use that place, we decided that Jerusalem itself would be the gallery, and we moved on to site specific sound works, where we created, .among other things, the soundwalks project
One of the things I love must about soundwalks, is that the leakage between the outside and the inside sounds, that you do not always know the source of the sound you hear, and that you always experience a one-time piece, consisting of the recorded along with the live.

Are you working on any particular project at the moment? Is there anything that you would like to (and can) share with us?

These days I have a desire to go back to playing music, mostly rock and folk music, songs, guitar, to meet an audience. And this is after a long time that I almost did not perform during the corona period, and also following the pregnancy and birth of my little son who is already two years old today. There are two planned performances.
Apart from that, one of my sound works will be presented at the end of April in an exhibition called Mishlaya” – the meaning of the term is a musical chapter that opens the Andalusian work, whose function is to direct the instruments and lay the foundation for the musical chapter. that follows, of course as a borrowed concept.

יפית ראובני

בשנת 2017 היית חלק מתוכנית רזידנסי אמנותית המנוהלת על ידי מוסררה ואיקונה: איזו משמעות הייתה לפרויקט בוונציה עבורך? האם היה משהו מסוים שמשך אותך בעבודה בעיר הזאת?

תוכנית ההתמחות בוונציה הייתה חוויה ייחודית עבורי. הייתי עם בעלי ובתי הקטנה, והנושאים המשפחתיים האישיים ליוו את היצירה. עבודתי חקרה את דמותה של שרה קופיה סולם, אישה יהודייה שחיה בגטו
היהודי במאה ה- 16 , משוררת וסופר ת. המסע בעקבותיה והבנת הנושאים העיקריים בעבודה היו מסתוריים עבורי, ודרשו זמן וסבלנו ת.
העיר וההיבט המימי שלה )הרחם( יצרו מוטיב סונורי מרכזי, אשר בעבודה ייצג איכות נשית-אימהית.


במצגת הווידאו באתר שלך, את מדברת על השורשים הפרסיים שלך כאלמנט משמעותי בהזהות שלך, ואת העניין שלך לחקו ר אותם עמוק יותר. מה המשמעות של מחקר זה עבורך? איך זה בא לידי ביטוי בפרקטיקה האמנותית שלך?
כמו כן, בהמשך לפרויקט אסתר א שלך ושל דאפי ספונר, כאן חקרת, בין היתר, את הנושאים ש לזהות ואמהות. כשטענת שאת רוצה ליצור ‘מיתוס נשי חדש’ למה התכוונת? מה הוביל אותך לרעיון הזה? היית אומרת שכבר מצאת תשובה כלשהי במסע הזה?

עד שנות העשרים שלי “פרסיות” הי תה מנטליות ממנה רציתי להתרחק. לא שמעתי מוזיקה פרסית ולא צרכתי תרבות פרסית, למרות שהוריי נולדו באיראן, ואמי היגרה בשנות העשרים לחייה .
הבית שבו גדלתי היה מאוד פרסי במנטליות שלו, אבל עדיין אני לא מדבר ת את השפה.
רק בשנותיי הבוגרו ת הבנתי ש”הפרסיות” הוא מקור משמעותי מאוד במרחב הדימויים שלי, גם אם הכחשתי אותו, והוא נושא סוגיות לא פתורות אודו ת הזהות שלי, על התפיסה שלי את עצמי כאישה וכאמני ת.
הרובד הראשון הזהות הזא ת חיבר אותי לאמא שלי, לשפת האם שלה, לשירים שהיא זוכרת, ובהמשך גם לאם שאני הפכתי להיו ת. לצד היופי, הפולקלור, הצלילים והריחות, הרגשתי שתרבו ת זו מסמלת עבורי גם מגבלו ת, תפיסות שמרניות ומסור תיות על תפקידם של נשים ואמהו ת.
מגבלות שירשתי מהשושלת הנשית שלי. הבנה שהפחידה אותי ועוררה בי התנגדות. רציתי להיות חופשייה, חזקה, עצמאית, וגיליתי משהו שונה בעצמי.
בהמשך המחקר שלי, בשכבה העמוקה יותר, גיליתי כי ה”פרסיות שלי” מאפשרת חיבור לפילוסופיה ומיתולוגיה עתיקה, עשירה ויפה, שבה הנשיות מקבלת ייצוגים רחבים, צבעוניים ועוצמתיים. הבנה זו הזכירה לי את כוחי, גם אם לעיתים הוא היה נסתר מעיניי ומעינייהם של אחרים.
ב”אסתרא” למשל, שיצרתי זמן קצר לאחר לידת בתי, אני מבטא ת את השכבות האלה של ייצוג נשי. אורג ת השטיחים בשיר הוא השתקפות של אלה רבת עוצמה, אסתרא מתכתבת עם אישתר ועשתורת, אלת האהבה והמלחמה, ואף אסתר המלכה במסורת היהודית, אך יוצרת מיתוס נשי חדש. העבודה מספרת על האלה הנמצאת באישה הפשוטה, הסגורה בעולמה המוגבל, על ריבוי הפנים שלה, על יכולתה להיות רב-ממדית ואינסופית.

היינו רוצים לדבר על גם “עבודת מטבח”. עבודה זו מתחילה בצלילים מוכרים: מים זורמים מהברז, אולי
מישהו שוטף את הכלים, מזמם מנגינה, קול נשמע מרחוק בשלב מסוים, ומנגינה תוססת ומונוטונית נכנסת אל המרחב ומתחילה להתמזג בצלילים האחרים: מסצנה יומיומית ומוכרת אנו נכנסים למימדים חדשים. הרושם שלנו הוא ששינויי הקול האלה מביאים אותנו למרחב מעוות, בניגוד למשהו שאולי נחווה בתחילה כזיכרון חיובי יותר.האם את מסכימה עם פרשנות זו? אילו רגשות הצלילים האלו עוררו בך?

“עבודות מטבח” היא סדרה עבודו ת שיצרתי. נדמה לי ששאלתך מתייחס ת ל “שיר געגועים”, אחת העבודות בסדרה. יצירה זו עוסקת בדמותה של א מי, ו בגעגוע שלה לאיראן, געגוע הנמצא בכל מקום בבי ת: תוך כדי שטיפת הכלים ועבודות הבית, בין ריחות הבישול, המוזיקה, חלומות הלילה. ביצירה יש הקלטות של ההורים שלי ושל אחותי, ושל חתולה שהיתה לנו שאהבתי מאוד ומ תה מזקנה. הקולות והצלילים לפעמים מתחברים בהרמוניה, לפעמים מייצרים דיסוננס. עבודה נוספת בסדרה הנקרא ת “עינ תה עומרי”, מדמה סצנה ממטבח, כמו פסקול ללא סרט. אפשר לשמוע ברקע קולו ת של בישול, ובמטבח נשמע כמו מרדיו שיר מפורסם בערבי ת ” עינתה עמרי” – שפירושו “אתה העולם שלי”. בבית יש אישה מבוגרת וגבר ששתיקה בינהם, תהום ביניהם. האישה שרה שיר אהבה במרוקאי ת המספר על אהבה נכזב ת. יצרתי את העבודה הזו בעקבות מפגש עם נשים מבוגרות בשכונת מוסררה בירושלים, רובן עולות ממרוקו. נשים אלה נישאו בגיל צעיר מאוד, חלקן כילדות. עבודה נוספת בסדרה נגנזה ואולי ארחיב על כך בהזדמנות אחרת.

את בין המייסדים של גלריית הסאונד הירושלמית. תוכלי לספר לנו עוד על הפרויקט הזה? אילו סיבות הביאו את להקמה של הגלריה? בסדרת Soundwalks , יצרתם נופי ם צלילים המאפשרים דרך חלופית לחוות מרחב, לא דרך תמונות, אלא דרך צלילים. בסוג זה של יצירה בה גבולות פיזיים מיוצגים באמצעות סאונד, מהו עבורך החיבור בין מרחב וצליל?

הקמתי את גלריית הסאונד הירושלמית בשנת 2010 יחד עם יניב קוריס, אף הוא בוגר “מוסררה”, וחברים נוספים. באותו זמן אמנות סאונד קיבלה במה והתייחסות בעולם והרגשנו שזה הרגע הנכון ליצור משהו חדש. ירושלים מייצרת מורכבות פוליטית וחברתית, המתבטאת גם בצליל, והרגשנו כי בשל הזמן לספר את סיפורה של ירושלים באמצעות צליל, כמובן מתוך החוייה הסובייקטיבית שלנו.
במשך מספר חודשים פעלנו במקום קטן במרכז ירושלים והצגנו מיצבים, תערוכות ומופעים. אחרי שכבר לא יכולנו להשתמש באותו חלל, החלטנו שירושלים עצמה תהיה הגלריה, והתחלנו ליצור עבודות סאונד תלויית מקום. שם יצרנו, בין היתר, את פרויקט הליכות הסאונד.
אחד הדברים שאני אוהבת בהליכות סאונד, הוא הזליגה בין הצלילים החיצוניים והפנימיים, כשאינך יודע בוודאות מהו מקור הצליל שאתה שומע, ושאתה תמיד חווה יצירה חד פעמית, המורכבת מההקלטה המוכנה מרא ש לצד רחשי החיים.

האם את עובדת על כל פרויקט מסוים כרגע? האם יש משהו שאת רוצה )ויכולה ( לחלוק איתנו?

בימים אלה יש לי רצון לחזור לנגן מוזיקה, בעיקר רוק ומוזיקת פולק , שירים, גיטרה, לפגוש קהל. וזה אחרי הרבה זמן שכמעט לא הופעתי בתקופת הקורונה, וגם בעקבות ההיריון והלידה של הבן הקטן שלי שהוא כבר בן שנתיים היום. יש שתי הופעות מתוכננות.
חוץ מזה, אחת מעבודות הסאונד שלי תוצג בסוף אפריל בתערוכה בשם “משיליה” – מושג מושאל מן היצירה האנדולוסית, שמשמעו פרק מוזיקלי פותח, שתפקידו לכוון את הכלים ולהניח את היסודו ת לפרק המוזיקלי.

Yafit Reuveny

Nata nel 1982, Yafit Reuveny è una musicista e paesaggista sonora di Gerusalemme, compositrice di musica elettroacustica e di field recording site-specific, il cui lavoro si interroga su tematiche legate alla femminilità, all’identità e alla memoria.
Si è laureata cum laude al Dipartimento di Nuova Musica di Musrara, la Naggar Multidisciplinary School of Art and Society (2006). È anche vocalista e chitarrista, co-fondatrice della Jerusalem Sound Gallery, e vincitrice del Jerusalem Mayor Prize (2006).
Reuveny ha presentato i suoi lavori in Europa e in Israele tra cui la galleria IKONA di Venezia, il festival internazionale di Audioarte di Berlino, “Radiophrenia” di Glasgow, UK, il Museo d’Arte di Tel-Aviv e il festival internazionale MusraraMix.

Born in 1982, Yafit Reuveny is a Jerusalem based musician and sound artist, composer of electroacoustic music and site-specific field recording based music, questioning themes of femininity, identity and memory.
She graduated cum laude at the New Music Department of Musrara, the Naggar Multidisciplinary School of Art and Society (2006). She is also a vocalist and guitar player, co-founder of the Jerusalem Sound Gallery, and winner of the Jerusalem Mayor Prize (2006).
Reuveny has presented her works in Europe and Israel including IKONA Gallery Venice, the International Audio–art festival Berlin, “Radiophrenia” Glasgow, UK, The Tel-Aviv Museum of Art and MusraraMix International Festival.