Un dialogo con Shira Horesh

Ikona Gallery - Shira Horesh

Ikona Gallery - Un dialogo con Shira Horesh - Say Temple

Ikona Gallery - Un dialogo con Shira Horesh - Say Temple

Ikona Gallery - Un dialogo con Shira Horesh - Say Temple

Un dialogo con Shira Horesh

Nella mia opera sono presente con i suoni che riecheggiano tra le battute, tra una persona e sé stessa, tra una persona e l’altra, tra una persona e ciò che la circonda. Collegandomi alla mia fonte contemplo il cambiamento in divenire, assecondo il corso della luna, chiedendo di essere svuotata di contenuti formali ripetitivi. In questo arco di nuove opportunità sono presente nell’ignoranza, nell’attenzione e nella piena fiducia, generando azioni e poi raccogliendone i resti. In questi intervalli di respiro invito il pubblico e gli altri artisti a stare con me, fare eco alla loro fonte nella loro arte e l’arte nella loro vita. Questi atti producono un asse di introspezione ed extra-spezione parallela, una piattaforma per indagare l’intimità e allontanamento, critica e appartenenza, e per porre domande e sperimentare. Una volta terminato il fare, rimane uno spazio a-locale, uno spazio contestuale in attesa di essere caricato con l’esperienza dello spettatore. In questo luogo non c’è l’onere della prova o alcuni momenti decisivi, ma piuttosto un nuovo ricordo, che è l’adesso.


Nel 2017 hai partecipato a una residenza artistica realizzata grazie alla collaborazione tra Ikona Gallery e Musrara School of Photography. Quale significato ha avuto, per te, questo progetto a Venezia? C’è stato qualcosa in particolare che ti ha influenzato e attirato nel lavorare in questa città?

Il mio primo approccio con Venezia è stato attraverso i suoi immaginari e riferimenti storico-cabalistici. Mio fratello, infatti, si occupa di storia moderna, e le sue ricerche principali sono incentrate sulle genealogie cabalistiche, molte delle quali sono italiane e veneziane in particolare: è stato lui a mostrarmi una spettacolare collezione di accordi matrimoniali della comunità ebraica nel ghetto e di mappe di questo luogo della città e dei suoi confini, raccontati attraverso la loro lunga storia.
In quel periodo, prima del mio arrivo in città, mi era stato mostrato un manoscritto cabalistico italiano (di Jacob Ban Mordechai Poito), che aveva disposto i conti cabalistici (sephirot) seguendo la forma di una chuppah [il baldacchino matrimoniale ebraico] (il testo è stato poi esposto nella mostra stessa). Sono rimasta profondamente colpita da quel documento cartaceo e ho cominciato a interessarmi in maniera esponenziale ai manoscritti locali, instaurando una stretta collaborazione e un dialogo anche con il museo ebraico di Venezia. Ho così iniziato ad esplorare il significato cabalistico del canopo e il mio interesse si è rapidamente spostato verso i rituali performativi della tradizione ebraica.
A livello personale, questa ricerca mi ha avvicinata molto a mio fratello, con cui avevo sempre mantenuto una certa distanza. Si è creato una sorta di canopo, appunto, una soglia, una nuova associazione sacra. Attraverso questo processo è nata una connessione anche emotiva con la città, già prima del mio arrivo.
All’epoca, arrivai a Venezia pochi giorni dopo aver lasciato casa a seguito della fine di una storia d’amore e una brutta influenza che mi aveva colta di conseguenza. Sono giunta in città senza sapere in che casa sarei tornata una volta finito il progetto. La comunità di artisti, la galleria e l’unione di queste energie – come sotto una chuppah – hanno ricucito le ferite del mio cuore e Venezia è diventata un luogo speciale e curativo, per me.
Ancora oggi sento che Venezia è una casa e un tempio. Inoltre, è una città che pure è stata ricucita e, di tanto in tanto, mi manca.

The Holy Moment, che hai presentato a Venezia durante il periodo di residenza, come hai già sottolineato in altri momenti, ha influenzato la tua pratica artistica da quel momento in poi. Come spettatori, si ha l’impressione di interrompere qualche forma intima e rituale che avviene nel mezzo della strada. Che ruolo giocano le pratiche rituali nella tua arte?

Sento che il rituale, questo ‘disturbo’ delle faccende quotidiane, è un’occasione per ri-discutere come siamo abituati a essere presenti e reagire nel momento, e come ricordiamo, dentro al nostro io che contempla in silenzio.
Processi presumibilmente molto complessi, ma che nel momento (sacro) della verità si semplificano in un delicato sguardo, in un tocco, in un respiro leggero e concertato. Un rituale condiviso diviene una sorta di sinergia di meditazioni, una passeggiata insieme verso il paradiso.
Per me, il lavoro dietro al rituale, sta nel creare queste condizioni, per quel più semplice momento immaginabile, tra lo zero e l’uno, non esiste nè più nè meno di ciò, questo spazio così cliché, che è l’unica cosa reale alla fine della giornata.
La chuppah ha nel corso del tempo assunto un significato simile, ho perciò deciso di smontare il concetto dalle sue connotazioni precedenti, e l’ho ricostruito, creando un momento meditativo che lega le persone. La chuppah, nella sua essenza, serve a differenziare due persone dalla folla – per santificarle e separarle dallo spazio circostante. In una connessione spirituale ed emotiva, la chuppah isola il tempo e lo spazio per creare quello che io chiamo “un momento sacro”.

Il ruolo che un rituale assume per me è quello di divenire, per un istante, come un baldacchino matrimoniale, in grado di differenziare il silenzio dal rumore – del cervello nella sua frenesia, della distrazione esterna – e porsi in ascolto.
Se ascoltiamo, ci sarà silenzio.

A Bruxelles, due anni fa, per studiare e praticare un rituale che incentrato sul respiro, ho vissuto per una settimana all’interno di una galleria, mangiando solo riso e partecipando a vari rituali (vestita da sumo), fino a giungere al rituale in cui ho solamente respirato. Quello stesso respiro ha raggiunto una forza e delle dimensioni sconvolgenti, per me e per gli spettatori presenti in galleria o che osservavano attraverso la vetrina affacciata sulla strada. Tutto scorreva, ma per riuscire ad arrivare a quel punto ho dovuto raggiungere una completa devozione, un vero e proprio svuotamento dalle voci distraenti.

Tutto questo, è bene sottolinearlo, anche con molto umorismo e con uno spirito teatrale. L’arte ha quella forza giocosa che la religione non ha, una connessione creativa e originale con l’essere. La buona arte fa di sè stessa un esperimento, e quindi è segnata da una buona dose di umiltà, e di libertà.

La laguna di Venezia, con le sue acque che scorrono, ha avuto una qualche particolare influenza sulla nascita della tua opera?

Ho trovato un certo contrasto tra il movimento dell’acqua, e il valore di compassione e perdono che le conferisce, e la determinazione e urgenza di controllare la terra (ancora di più a Venezia dove i canali sono stati costruiti dall’uomo e le fondamenta giungono fino alla riva stessa).
Questo contrasto viene così espresso dalla stazione del vaporetto, scricchiolante sull’acqua – ho registrato il rumore dell’attrito, il gorgoglio dell’acqua e lo scricchiolio della struttura, creando le basi per il lavoro realizzato specificatamente per la mostra (e, in quell’occasione, il registratore stesso è stato portato via dall’acqua).
Inoltre, quella stessa fermata è stata come una chuppah pronta all’uso, sotto la sua tettoia ha avuto luogo il momento sacro registrato in quell’opera video.

Il contatto con la fermata sull’acqua – un luogo d’incontro tra la volontà di rimanere ancorati e la natura innegabile del cambiamento e del movimento – che è quello stesso punto di contatto che viene indagato nei momenti sacri al di sotto della chuppah.

Parlando di rituali, ci potresti raccontare di più su The White Sumo, un lavoro che sembra quasi speculare a The Holy Moment. Questa figura che impersonifichi sembra quasi una sorta di “altro-sè”, non un opposto ma quanto più un’entità completamente separata da te, che trasforma il tuo corpo in una sorta di guscio vuoto. Durante la performance, cosa, questo corpo che diviene ricettacolo, senti che lascia andare? E cosa invece riceve?

Wow, è in realtà un processo accelerato della mia vita quotidiana, una lotta esistenziale tra la donna che sono e la sacerdotessa dentro di me. Una danza dell’ego e dell’anima, della serietà e dell’umorismo, del sapere e del non sapere. (in questo aspetto sono contenta di creare in luoghi lontani, dove la mia lingua smette di essere utile prima della performance in ogni caso, un vuoto che ha reso possibile, per esempio, che la gente condividesse con me segreti intimi in lingue straniere che non capivo, come è accaduto in Portogallo e Spagna l’estate scorsa, dove ho condotto cerimonie all’ingresso di un portone).

Nella tua opera The White Sumo, in cui hai lavorato con diverse comunità, sei entrata in relazione profonda con gli altri. Questo è, inoltre, successo soprattutto nel dhikr che hai realizzato per white sumo. Come ti relazioni con persone che non conosci personalmente?

Queste sono le avventure più vere, non c’è altro che una scintilla. Sono svuotata di me stessa in quel momento, una luna pronta per essere riempita e riflettere la luce dell’altro. Dopo spesso sogno sogni che non sono miei, a volte per una settimana intera. Sento in quel momento una delicata comprensione dell’unità.

Guardando alla tua idea iniziale, che risultati ti aspettavi da questa sperimentazione?

L’Idea di un dhikr per White Sumo.
Mi è parsa come una proposta di matrimonio con dio.

Ho avuto il privilegio di esibirmi con la comunità santa di Halevi: una comunità chiusa di sufi (curdi) che per la prima volta è uscita dai suoi confini, abbiamo creato una cerimonia musicale performativa nella galleria, senza porre alcuna separazione tra dio, arte e vita.

Non mi aspetto che la pratica artistica mi dia nulla, se non la pace della devozione, e un senso di realizzazione della mia vera natura, e riuscire a condividere questa esperienza con più persone. Quella notte, ho sentito me stessa e le persone intorno a me, in posizione seduta e rilassate, spaziose (e vorticose) dentro la nostra essenza.
Questo è il successo per me.

La tua scrittura implica una componente grafica e visuale molto forte, sia nei tuoi progetti individuali sia quando entri in dialogo con i contributi artisti di altri. Di solito lasci questo aspetto alla completa decisione dei tuoi editori o degli artisti con cui collabori? O, al contrario, nasce da un dialogo attivo con loro?

Osservando le tue opere e i tuoi progetti, un leitmotif è il tentativo di catturare le “ierofanie nascoste nella realtà” attraverso la tua pratica artistica. Una sorta di “spiritualità ascetica”, alla ricerca di una verità universale tra persone, accadimenti, luoghi, sembra guidare la maggior parte della tua arte. Nel nostro scambio di email hai parlato di uno dei tuoi progetti più recenti The poetry of the unseen: il titolo sembra sintetizzare questo concetto di cui parliamo. Ci puoi raccontare qualcosa di più specifico a riguardo?

La visione iniziale è quella di creare una sala di osservazione all’interno della città; una residenza la cui essenza è essere la “e” di connessione tra cielo e terra, e una porta tra la persona e il suo sé. L’obiettivo è quello di avere cuore e corpo presenti insieme nel momento presente, delicatamente e con attenzione, partendo dalla consapevolezza che siamo tutti poeti quando esprimiamo la nostra essenza nel mondo, e attraverso questa poesia creiamo connessioni.
Il progetto è una sorta di tempio dedicato alla purificazione quotidiana dai rumori, credenze e idee esterne.
Negli spazi predisposti, verranno organizzate performance terapeutiche, rituali e incontri, mostre d’arte site specific, riunioni di ricerca e creazione.
Ci sarà una biblioteca, una casa del tè su ispirazione giapponese, e un negozio di oggetti solidali, promuovendo un acquisto e consumo consapevoli.
Con il passare del tempo, vorrei anche creare una stazione radio e un programma di residenza internazionale per artisti e scrittori.
Lo spazio si trova, inoltre, in una strada chiamata “il sentiero della poesia” a Wadi Nisnas: è situato al piano terra di un antico edificio speciale, che attualmente è la casa di tutte e tre le grandi religioni monoteiste.
Il nuovo spazio si chiama “Shirat Hanistar” (La poesia del non visto) ma io preferisco usare la traduzione inglese del significato del kanji giapponese per la parola poesia. Questo infatti divide il termine, splendidamente, in due segni: Dire e Tempio, di conseguenza in giapponese il significato della parola poesia è “dire un tempio”.
Anche l’espressione che avete usato è meravigliosa e ha un significato simile – la ierofania nascosta/poetica. Forse la userò anch’io da qualche parte, grazie per questo spunto!

Nel primo evento, che sarà il punto di partenza per la mostra inaugurale dello spazio, creeremo all’interno della sala un baldacchino realizzato con delle toppe, su ispirazione delle tende bianche per le donne.
Il soffitto ad arco sarà avvolto da lenzuola fatte con fazzoletti personali e copricapi delle donne locali.
I teli saranno cuciti a mano dalle donne stesse (ognuna di loro ne porterà un pezzo) in momenti diversi, in silenzio.
La comunicazione si svolgerà principalmente attraverso gli occhi, il sorriso e la presenza reciproca. Questi incontri saranno filmati e consolidati in un’opera di video arte.

A dialogue with Shira Horesh

In my work, I am present with the sounds echoing between measures, between a person and themselves, between one person and another, between a person and their surroundings. Connecting to my source I contemplate the ongoing change, submit to the course of the moon, asking to be emptied of repetitious formal content. In this span of new opportunities, I am present in ignorance, attention and full trust, generating actions, and then gathering their remains. In these intervals of breathing I invite the audience and other artists to stand with me, echo their source in their art and the art back into their life. These acts produce an axis of parallel introspection and extra-spection, a platform to investigate intimacy and estrangement, criticism and belonging, and for asking questions and experiencing. Once the doing ends, there remains an a-local space, a contextual space waiting to be loaded with the viewer’s experience. In this place, there is not the burden of proof or some decisive moments, but rather a new memory, which is the now.


In 2017 you have been part of an artists’ residency program between Musrara and Ikona: what meaning did the project in Venice have for you? Was there something in particular attracting you about exhibiting in this city?

My first acquaintance with Venice was through its historical-Kabbalistic outlines. My brother is an early Modern era historian, researching Kabbalistic genealogies, many of which are Italian, Venetian specifically, and he showed me a spectacular collection of marriage agreements of the Jewish community in the Ghetto, and maps in which the Ghetto and its borders are shown throughout history.

At that time, prior to my arrival, I was shown an Italian Kabbalistic pedigree (of Jacob Ben Mordechai Poito) who laid the Kabalistic counts (sephirot) in the form of a canopy (the manuscript was later shown in the exhibition itself). I was profoundly moved by that scroll, and started to get more interested with the local manuscripts, and later on a close connection was made with Jewish museum in Venice.
I started to explore the Kabbalistic meaning of the canopy form,
And got interested in the performative rituals in the Jewish tradition.

On a personal note, this exploration brought me closer to my brother, with whom my relations are rather distant.
It created between us a canopy of sorts as well, a demarcation, a new sacred association. Through this process an emotional connection was created with the city, even before I had arrived.

At that time, I reached the city just a few days after dismantling a house due to a breakup, and a hard flu that took over me as a result. I reached the city not knowing which house I’ll return to. The community of creators and the gallery, and the act of repeated union under the canopy, in the gallery and around town, mended my heart, Venice became a special and healing place for me.

Today as well, I feel that Venice is a home and a temple. It is a city that was also mended and I long for it from time to time.

The Holy Moment, which you presented in Venice during your residency, affected your artistic practice from then on, as you have previously said. As a viewer, one has the impression of interrupting some intimate form of ritual taking place in the middle of the street.
What role do ritual practices play in your art?

I feel that ‘that disturbance’ to the day-to-day, the ritual, is an opportunity to re-choose the habits of presence and response, and remembrance, in the silent observing self.
Allegedly very complex processes, but in the (sacred) moment of truth they are simplified into a mere glance, a touch, a light, concerted breath, in full being.
A shared ritual which is a synergy of meditations of sorts, a mutual stroll to the heavens

For me, the striving for the ritual, is creating these conditions, to the most simple moment imaginable, between zero and one, there’s no more than that and no less, that cliche space, that’s the only real thing at the end of the day.

The canopy was such a thing, I dismantled the concept from its earlier connotations, and reconstructed it, to a meditative moment that bonds people.
The canopy, in its essence, comes to differentiate two people from the crowd – in order to sanctify them, separate in order to set them apart.
A spiritual and emotional connection, the canopy isolates time and space in order to create what I call “a holy moment”.

That the role of a ritual to me, is to be a canopy for a moment, to differentiate silence from the noise – of the frenetic brain, of the distracting outside – and listen.
If we listen there will be silence.

In Brussels, two years ago, for the purpose of a ritual revolving around breath, I lived for a week inside a gallery, I ate only rice and participated in various rituals (dressed as the sumo), till the ritual in which I just breathed, that same breath reached shattering dimensions, for me and for the viewers present in the gallery or viewed the ritual through the vitrine facing the street.
Everything just flowed, but in order to reach that point I had to reach complete devotion, a true emptying of distracting voices.
All that with much humor and in a theatrical spirit.

Art has the playful power that religion does not have, a creative and original connection to being.
Good art treats itself as an experiment, and so has a great deal of humility, great deal of freedom.

Did the Venetian Lagoon, and its flowing waters, have any influence on the genesis of the artwork?

I have found a contrast between the movement of the water, the compassion and forgiveness they bestow to the fixation and the urge to control the land (Even more so in Venice, the land is man made, it is paved right up to the ledge of the bank)

This contrast was expressed by the Vaporetto station creaking of the on the water – the friction, the rustle of the water and the creaking were recorded and were the basis for the video work I created for the exhibition (and on that occasion the sound recorder was washed away as well)
Furthermore, that same station served as a ready-made canopy, underneath it the sacred moment from that video work was conducted.

The contact of the station on water – a meeting point between the will to be anchored and the nature of change and movement – that is the meeting point that is examined also in the sacred moments under the canopy.

Speaking of rituals, could you tell us more about The White Sumo, an artwork that seems as if mirroring The Holy Moment. This figure you personify is a sort of ‘other-self’, not an opposite but rather an entity completely detached from you, that transforms your body into an empty shell.
During the performance, what do you sense that this body turned receptacle is letting out? And what is it taking in?

Wow, it’s an accelerated process of my daily life, an existential struggle between the woman that I am and the priestess in me.
A dance of the ego and the soul, of seriousness and humor, of knowing and not knowing.
(in that aspect I’m glad to create in far away places, where my language breaks down before the performance in any case, an emptiness that made it possible that in Portugal and Spain last summer, where I conducted ceremonies at the entrance of a gate, people shared with me intimate secrets in foreign languages I did not understand)

During your white sumo project, while working inside different communities, you were putting yourself in a place of deep personal interaction with others. This was especially the case during the Zicher. How did you approach working with people you didn’t know personally?

These are the most real flings, there’s nothing other than a spark
I am emptied of myself in that moment, a moon ready to be filled and reflect the light of the other.
Afterwards I dream dreams which are not mine, sometimes over a week.
I feel in that moment a slight understanding of oneness.

Looking back at your original idea, what result were you expecting to come out from this experiment?

The Idea for a white sumo zicher
Felt like a proposal to marry god
I had the privilege to perform with the holy community of Halevi, a closed community of Sufis (Kurds) that for the first time broke out from their borders, we created a performative musical ceremony in the gallery that has no separation between god, art and life.
I have no expectation from art like the peacefulness of devotion, and the sense of realization of my true nature, and give this experience to more people.
That night, I felt myself and the people around me, sitting relaxed and spacious (and whirling) within our essence,
That is success to me.

Looking at your artworks and projects, a leitmotif is a search to capture ‘the hierophanies hidden in reality’ through your artistic practice. A sort of ‘ascetic spirituality’, looking for a universal truth within individual people, moments, places, seems to guide much of your art. In your earlier email reply, you mentioned your more recent project The poetry of the unseen: the title seems to summarise this concept. Could you tell us something more specific about it?

The vision is to create an observation hall within the city,
A residence whose essence is being the ‘and’ in heaven and earth and a gate between a person and his self.

Bringing heart and body into the same time, gently and attentively, from the understanding that we are all poets when we express our essence in the world, and through this poetry we connect.

A temple of sorts dedicated to the daily cleansing from noises, beliefs and external ideas.
In the premises there will be therapeutic performances, rituals and gatherings, site specific art exhibitions, investigation and creation meetings.

In it will be a library, tea house inspired by Japanese tea houses, and a mindful objects store advocating sensible consumption.
Later on I plan to have a hosted radio station, and an international residency program for artists and writers.

The space is located in a street called ‘the path of the poem’ in Wadi Nisnas, on the ground floor of a special ancient building that is currently occupied by all three religions.

The new space is called “Shirat Hanistar” (The poetry of the unseen) but I use the english translation of the Japanese kanji meaning for the word poetry, and beautifully divides the word into two sign: Say and Temple, that is in Japanese the meaning of the word poetry is to say a temple.

The expression you used is also wonderful as it has similar meaning – the hidden/poetic Hierophany.

Maybe I’ll use it too somewhere, thank you for that!

In the first event which will be the basis for the first exhibition, we’ll create within the hall a patches canopy, a women’s white tent.
The ceiling, which is arched, will be wrapped in sheets made from personal handkerchiefs and head covers of the local women.
The sheets will be hand sewn by the women themselves (each woman will bring a piece) in different intervals, in silence.
The communication will commence through eyes, smile and mutual presence.
These gatherings will be filmed and consolidated into a video art work as well.

דיאלוג עם שירה חרש

בעבודתי אני נוכחת עם הצלילים הנשמעים בין תיבה לתיבה, בין אדם לעצמו, בין אדם לזולתו, בין אדם לסביבתו.
מתוך חיבור למקור שלי, אני מתבוננת בהשתנות המתרחשת, נענית למסלול הירח, מבקשת להתרוקן מתוכן צורני – החוזר חלילה.
במרחב זה של אפשרויות חדשות, אני נוכחת בחוסר ידיעה, בתשומת לב ובאמון מלא, מייצרת פעולות ולאחר מכ מלקטת את השיירי שלהם.
במרווחי הנשימה הללו אני מזמינה את הקהל ואמנים נוספים לעמוד איתי, להדהד ביצירה את המקור שלהם, ומהיצירה להדהד אל תוך חייהם.
בפעולות אילו נוצר ציר של התבוננות פנימה והחוצה במקביל, פלטפורמה לחקירת אינטימיות וזרות, שיפוטיות ושייכות, לשאילת שאלות ולחוויה.
לאחר העשייה נותר מרחב של א- מקום, מרחב קונטקסטואלי המחכה להטען בחווית הצופה,
באותו המקום לא מצויה חובת ההוכחה או רגעים מכריעים, אלא זיכרון חדש, הוא העכשיו.


In 2017 you were part of an artists’ residency program between Musrara and Ikona:  what meaning did the project in Venice have for you? Was there something in particular  attracting you about exhibiting in this city?


היכרותי הראשונית עם ונציה היתה דרך קויי המתאר ההסטוריים-קבליים שלה. אחי הוא היסטוריון של העת החדשה המוקדמת, חוקר אילנות קבליים, רבים מהם מאיטליה, ובונציה בפרט,  והוא הביאני למאגר מרהיב של כתובות נישואין של הקהילה היהודית בגטו, ומפות בהן נראה הגטו וגבולותיו לאורך ההיסטוריה. 

בעת ההיא, טרם הגעתי,נחשפתי לאילן קבלי איטלקי (של יעקב בן מרדכי פויטו) אשר הניח את הספירות הקבליות על עומקיהן במבנה של חופה   (כתב היד הופיע בהמשך בתערוכה עצמה)
התרגשתי מאד מהמגילה ההיא, והתחלתי להתעניין עוד  בכתבי היד המקומיים, ובהמשך נוצר קשר קרוב עם המוזיאון היהודי בעיר. 
התחלתי לחקור את המשמעותיות הקבליות של מבנה החופה, 
ולהתעניין בריטואלים פרפורמטיביים במסורת היהודית.
במישור האישי החקירה הזו קירבה ביני לבין אחי, שהיחסינו סובלים מריחוק.
היא יצרה גם בינינו סוג של חופה, סימון, הקשר חדש מקודש. כתוצאה דרך התהליך הזה נוצר קשר רגשי עם העיר טרם הגעתי אליה.
בזמנו, הגעתי אל העיר ימים ספורים לאחר חורבן בית אישי של פרידה, ושפעת קשה שהשתלטה עלי בעקבות כך, הגעתי לעיר כשאיני יודעת לאיזה בית אני חוזרת.  
קהילת היוצרים והגלריה, ומעשה האיחוד החוזר ונשנה תחת החופה, בגלריה וברחבי העיר, איחו את ליבי, וונציה נעשתה למקום מיוחד ומרפא בעבורי.

גם כיום אני מרגישה שונציה היא מעין בית ומקדש. גם זו עיר שחוברה לה,  ואני עורגת אליה מפעם לפעם.

The Holy Moment, which you presented in Venice during your residency, affected your  artistic practice from then on, as you have previously said. As a viewer, one has the impression of interrupting some intimate form of ritual taking  place in the middle of the street.
What role do ritual practices play in your art?


אני מרגישה ש׳ההפרעה הזו׳ ליומיום, הפולחן, הוא הזדמנות לבחירה מחודשת של הרגלי נוכחות ותגובה, והזכרות, בעצמי השקט והמתבונן.
כביכול תהליכים מאד מורכבים, אך ברגע האמת (הקדוש) הם מתפשטים לכדי מבט, לכדי למגע, לכדי נשימה משותפת, קלה, במלוא ההוויה. 
פולחן משותף הוא מעין סינרגיה של מדיטציות, הליכה משותפת לשמיים.

החתירה לפולחן בעבורי, הוא יצירת התנאים הללו, לרגע הכי פשוט שניתן לדמיין, בין אפס לאחת, אין יותר מזה ואין פחות מזה, אותו רווח קלישאתי, שרק הוא ממשי בסופו של היום.

גם החופה היתה כזו, פירקתי  את המושג הזה מהקשריו הקודמים,  ובניתי אותו מחדש, לרגע מדיטטיבי המייחד בין אנשים.
 החופה, בבסיסה, באה להבדיל שני אנשים מתוך הקהל – על מנת לקדש ביניהם, להפרידם על מנת לייחדם חיבור רוחני ורגשי, החופה מבודדת זמן ומרחב על מנת ליצור את מה שאני מכנה ׳רגע קדוש׳.
זה התפקיד של פולחן עבורי, להיות חופה לרגע, להבדיל שקט מתוך הרעש – של המוח הקופצני, של החוץ המסיח, – להאזין.
אם נקשיב יהיה שקט.
בבירסל לפני כשנתיים, עבור ריטואל שעסק בנשימה, גרתי שבוע בתוך הגלריה, אכלתי רק אורז ועסקתי בריטואלים שונים (כשאני מחופשת לסומו), עד לטקס שבו בעצם רק נשמתי, 
אותה הנשימה הגיעה למימדים מטלטלים, עבורי ועבור הצופים שנכחו בגלריה וצפו בטקס דרך חלון הראווה מן הרחוב .
הכל כבר קרה מעצמו, אבל בעבור זה הייתי צריכה להגיע להתמסרות טוטאלית ולריקון אמיתי מקולות מסיחים. 
כל זה בהומור רב, וברוח תיאטרלית

לאמנות יש את הכוח המשחקי שאין לדת, חיבור יצירתי ומקורי להוויה. 
אמנות טובה מתייחסת לעצמה כאל ניסוי, על כן יש בה הרבה ענווה, והרבה חופש.

Did the Venetian Lagoon, and its flowing waters, have any influence on the genesis of the  artwork?


מצאתי ניגודיות בין התנועה של המים, החמלה והסליחה שהם מעניקים לקיבעון ולרצון בשליטה של האדמה (בונציה על אחת כמה וכמה הרי ׳האדמה׳ היא תוצר ידי אדם, והיא מרוצפת עד קצה הגדה)

הניגודיות הזו התבטאה בחריקה שיוצרת תחנת הוופרטו על המים – החיכוך.
רחש המים והחריקות הוקלטו והיוו בסיס לעבודת הווידאו שיצרתי בעבור התערוכה
(מכשיר ההקלטה נשטף גם הוא במים באותו הזדמנות)
בנוסף, אותו התחנה שימשה כחופת רדי מייד, תחתיה נערך הרגע הקדוש מעבודת הוידאו.

מגע התחנה על המים –  נקודת המפגש בין הרצון לעגינה לבין טבע ההשתנות והתנועה – 
היא נקודת המפגש שנבחנת גם ברגעים הקדושים מתחת לחופה.

Speaking of rituals, could you tell us more about The White Sumo, an artwork that seems  as if mirroring The Holy Moment. This figure you personify is a sort of ‘other-self’, not an  opposite but rather an entity completely detached from you, that transforms your body  into an empty shell.
During the performance, what do you sense that this body turned receptacle is letting  out? And what is it taking in?


וואו זה תהליך מואץ של היום יום שלי , מלחמת קיום בין האשה שאני לכהנת שבי.
ריקוד בין האגו לנשמה , בין רצינות להומור
בין לדעת ללא לדעת

בנייה ופירוק של צורה, של מילה, של גוף
(מהבחינה הזו אני שמחה ליצור במחוזות רחוקים, שם מתפרקת לי השפה זמן מה לפני המופע גם כך, ריקות שאפשרה זאת שבפורטוגל ובספרד בקיץ האחרון ערכתי טקסים בהן בפתח שער שיתפו אותי בסודות אינטימיים בשפות זרות שלא הבנתי)

מי אני המתבוננת (שם צומחת המודעות), ומי אני החשה (שם מתגלת החמלה), 
היכן כל אחת מהן פוגשת את האחר, ומה היא מהדהדת ומעניקה לו 
הגוף הוא סוג של גשר ביניהם – בין מוח ישן לחדש, אל העכשיו

אני עונה על השאלה הבאה בהקשר כללי של הסומו הלבן והעבודה שלו בתוך קהילות,  והזיכר באופן ספציפי ולא של פרוייקט הגלות (שהוקפא מעט בשל הקורונה):

During your white sumo project, while working inside different communities, you were putting yourself in a place of deep personal interaction with others. This was especially the case during the Zicher. How did you approach working with people you didn’t know personally?

אילו הסטוצים הכי אמיתיים שיש, אין שום דבר חוץ מניצוץ
אני ריקה מעצמי בזמן הזה, ירח המוכן להתמלא ולהקרין אורו של אחר.
אחר כך אני חולמת חלומות שאינם שלי
לפעמים במשך שבוע
אני מרגישה באותה העת הבנה קלושה של אחדות

Looking back at your original idea, what result were you expecting to come out from this  experiment?

הרעיון לערב זיכר של הסומו הלבן
הרגיש כמו הצעה להתחתן עם אלוהים
היה לי הזכות להופיע עם הקהילה הקדושה של halevi , קהילה סגורה של סופים (כורדים) שבפעם הראשונה יצאה את גבולות הקהילה, יצרנו טקס פרפורמטיבי מוזיקלי בגלריה, שאין בו שום הפרדה בין אלוהים לאמנות לחיים. 
אין לי שום ציפייה מהאמנות כמו השלווה של ההתמסרות, ותחושת ההכרה עם טבעי האמיתי,
ולהעניק לעוד אנשים את החוויה הזו.
באותו הערב, הרגשתי מאני וסובבי ישובים נינוחים ומרווחים (וסובבים) בתוך מהותינו, 
זוהי הצלחה מבחינתי

Looking at your artworks and projects, a leitmotif is a search to capture ‘the hierophanies  hidden in reality’ through your artistic practice. A sort of ‘ascetic spirituality’, looking for a  universal truth within individual people, moments, places, seems to guide much of your  art. In your earlier email reply, you mentioned your more recent project The poetry of the  unseen: the title seems to summarise this concept. Could you tell us something more  specific about it?

החזון הוא ליצור היכל התבוננות קהילתי בתוך העיר, 
משכן שמהותו להיות ו״ו החיבור בין שמיים וארץ, ושער בין האדם לעצמו.
להביא את הלב והגוף לאותו הזמן, בעדנה ובתשומת לב, מתוך ההבנה שכולנו משוררים שאנחנו מבטאים את המהות שלנו בעולם, ודרך השירה הזו אנחנו מתחברים.
מעין מקדש שיתמחה בעבודת נקיון יומיומית מרעשים, אמונות ורעיונות חיצוניים.
במקום יתקיימו מופעים תרפויטיים, טקסי התקרבות, תערוכות אמנות סייט ספסיפיק,מפגשי חקירה ויצירה. 
ויהיו בו ספרייה, בית תה בהשראת בתי תה יפניים, וחנות לאובייקטים מודעים שדוגלת בצריכה נבונה
בהמשך אני מתכננת לקיים במקום תחנת רדיו מארחת, ותכנית רזידנסי בינלאומית לאמנים וכותבים.
המרחב ממוקם ברחוב הנקרא ״דרך השיר״ בואדי ניסנאס, בקומתו הראשונה של מבנה עתיק ומיוחד, שכאעת מאוכלס על ידי שלוש הדתות.
המקום החדש נקרא בעברית ״שירת הנסתר״ (בתרגום מילולי: The poetry of the unseen), אך אני משתמשת בתרגום לאנגלית בפירוש הקנג׳י (סמל) היפני למילה שירה, שבאופן יפייפה מחלק את המילה שירה – לשני סימנים:  say tampleו –  
כלומר ביפנית פירושה של המילה שירה הוא להגיד מקדש.
גם הביטוי שאתם הבאתם הוא נהדר ומשמעותו דומה – the  hidden/poetic  Hierophany
אולי אשתמש גם בזה היכן שהוא, תודה על זה ! 

באירוע הראשון שיהיה הבסיס לתערוכה הראשונה, ניצור בתוך ההיכל חופת טלאים, אוהל נשים לבן. 
תקרת המקום שצורתה עגולה, עשויה קשתות, תתעטף ביריעות עשויות ממטפחות אישיות ומכיסויי הראש של נשות הקהילות המקומיות. 
היריעות יתפרו בעבודת יד על ידי הנשים עצמן (כל אשה תביא עימה פיסה אחת) בפסקי זמן שונים, בשתיקה. 
התקשורת תעשה דרך עיניים, חיוך ונוכחות משותפת.
המפגשים הללו יצולמו ויתאגדו גם לעבודת וידאו ארט .

Ikona Gallery - Dialoghi

Shira Horesh

Shira Horesh è una poetessa, artista e terapeuta olistica israeliana. Vive ed opera a Haifa, dove lavorando al suo attuale progetto The poetry of the Unseen, un centro pulsante di osservazione comunitaria. È anche membro del duo noise elettronico ZeroOne e del gruppo Pyramid.
Ad oggi ha pubblicato tre libri di poesie: Lech Lecha (2020, ed. Y. Biton), 11:11 (2018, ed. A. Ben Ari), e All Superstitions (2015 ed. Y. Ben-Moshe).
Il suo lavoro di artista riguarda principalmente lo studio dei rituali e delle diverse culture. Interseca testi, suoni e performance attraverso collaborazioni con musicisti, architetti e ballerini. Negli ultimi anni ha preso parte a residenze artistiche in tutto il mondo, lavorando con comunità a Bruxelles, Francia, Georgia, Israele e Turchia. Nel 2017 è stata a Venezia per un programma di residenza presso IKONA. In precedenza ha trascorso un periodo in un monastero Zen in Giappone, dove ha scritto la sua terza opera, un libro multimediale con grafiche e poesie Haiku e Koan.
Shira si è laureata nel 2013 presso il Dipartimento di Fotografia di Musrara, la Scuola multidisciplinare di arte e società di Naggar.

→ Scopri di più su shirahoresh.com

Shira Horesh is an Israeli poet, artist and holistic therapist, who lives, creates and treats in Haifa. Here she is working on her current project The poetry of the unseen, a pulsating community observation hall. She is also a member of the electronic noise duo ZeroOne and of the Pyramid group.
To date, she has published three books of poetry: Lech Lecha (2020, ed. Y. Biton), 11:11 (2018, ed. A. Ben Ari), and All Superstitions (2015 ed. Y. Ben-Moshe).
Her work as an artist is mainly concerned with the study of rituals and different cultures. It intersects lyrics, sound and performance through collaborations with musicians, architects and dancers. In recent years, she has taken part in artistic residencies around the world, working with communities in Brussels, France, Georgia, Israel and Turkey. In 2017 she was in Venice for a residency program at IKONA. She has previously spent a period in a Zen monastery in Japan, where she wrote her third work, a multimedia graphic, Haiku and Koan poetry book.
Shira is a 2013 graduate of the Photography Department in Musrara, the Naggar Multidisciplinary School of Art and Society.

→ Discover more on shirahoresh.com